Di padre in figlio


Genitore (di Leo) nella vita vera, e spesso anche sullo schermo, Alessandro Gassmann racconta come, secondo lui, andrebbe fatto il mestiere più difficile del mondo. Che non è certo quello di attore.

Dare il giusto peso alle parole: «Quando leggo le sceneggiature che mi vengono mandate, cerco di capire quello che sto leggendo. Per me la prima lettura, il primo contatto, sono fondamentali. Provo a immaginare il film o la serie, e vivo quel momento come uno spettatore, non come un attore: devo emozionarmi per quello che può essere, per quello che può diventare». In Io ti cercherò, nuova serie prodotta da Publispei e da Rai Fiction, in onda dal 5 ottobre su Raiuno, Alessandro Gassmann interpreta un padre che perde suo figlio e che nell’elaborazione del lutto impara a conoscerlo meglio.

Si alternano presente e passato, e le promesse non mantenute del futuro si trasformano in miraggi lontani e inconsistenti. La voglia di sapere diventa un’ossessione, e l’ossessione, a sua volta, diventa l’unica cosa capace di riunire i morti e i vivi. Mentre attinge ai ricordi, Gassmann si immerge in un oceano fatto di suggestioni e sensazioni, in cui l’unica cosa che conta è la capacità di ricreare, ribaltando i concetti di finzione e verità, le emozioni. «La scomparsa di un figlio è un evento innaturale, perché i figli dovrebbero sopravvivere ai propri genitori, ed è pure il dolore più grande per un padre. È stato questo dolore che mi ha permesso di calarmi nei panni del mio personaggio, che mi ha permesso di conoscerlo nel profondo. Cercare di capire come rappresentarlo, come metterlo in scena, è stata una vera sfida. Ma è un ruolo importante, specialmente adesso».

 

Perché?
«Perché mostra la realtà che stiamo vivendo. Quella di ogni giorno, con la sua quotidianità fatta di piccole cose e di rituali. Le generazioni come la mia, o anche quelle un po’ più giovani, hanno abdicato al mestiere di genitori. Perché questo è un mestiere: bisogna dirlo chiaramente. E oggi molti ragazzi vengono seguiti pochissimo».

 

Cosa porta con sé l’essere genitori?
«Delle responsabilità. I nostri figli non ci chiedono di venire al mondo. Siamo noi che decidiamo per loro; siamo noi che facciamo questa scelta. E quindi siamo obbligati a occuparci di loro. Almeno fino ai 18 anni, un padre e una madre devono, in qualche modo, indicare la strada ai loro figli e sostenerli».

 

Cos’è cambiato?
«Il mondo. Con Internet, con le varie piattaforme, con la tecnologia. Ma soprattutto con la globalizzazione e con l’appiattimento dell’informazione».

 

In che senso?
«Oggi tutti possono sapere tutto. I bambini di 12 o 13 anni, che hanno già un cellulare, possono vedere le stesse cose che può vedere un adulto. E io sono convinto che questo sia estremamente sbagliato».

 

Anche questa è una responsabilità dei genitori?
«I genitori non possono essere amici dei propri figli. Occasionalmente, dobbiamo renderci antipatici. Dobbiamo dare delle regole, magari larghe, magari non rigidissime: ma dobbiamo darle. Devono esserci dei paletti fissi, inamovibili, di cui non si può discutere. È quello che ho fatto con mio figlio, ed è quello che mio padre ha fatto con me».

 

Dove inizia il lavoro dell’attore?
«Cerchi di prendere tutto quello che c’è da prendere: dai libri, dai film, dalle conversazioni; ti nutri di quello che ti circonda, e cerchi in quello che ti circonda una risposta, un suggerimento, un consiglio. Come attore, ho il compito di restituire verità al film, a quello che ho letto e alla visione del regista».

 

Che cosa divide il personaggio dalla persona?
«Il gioco è sempre lo stesso: rendere verosimile l’inverosimile; far credere allo spettatore di essere qualcun altro, di aver vissuto un’altra vita. Quando poi vai in onda su un canale come Rai Uno, hai un’altra responsabilità».

 

Quale?
«Ci sono milioni di persone che ti guardano e molti sono ragazzi. Alcuni anche giovanissimi. Devi pensare a loro».

 

Questa consapevolezza è un peso o è un aiuto?
«Quando decido di prendere parte a un progetto, provo sempre a dare il massimo. Non m’importa del resto. Dei numeri, della visibilità, del chiacchiericcio circostante. Io studio, mi preparo, ascolto i miei colleghi: condivido qualcosa con loro, non solo la scena. Il mestiere, poi, ti insegna come riprodurre un’emozione».
Lei che persona era da ragazzo?
«Non ero particolarmente buono. Ero pessimo a scuola, spesso non ci andavo e avevo un carattere difficile. Ero uno di quei figli che fanno impazzire i genitori. Non ho mai fatto cose gravi, no. Ma ero un ribelle, e non amavo il peso degli obblighi e la voce dell’autorità».

 

Quando è cambiato tutto?
«Con lo sport e soprattutto con la scoperta di questo mestiere, che faccio da trentasette anni, ho trovato la mia ancora di salvezza. All’inizio, però, volevo fare altro».

 

Cosa?
«Volevo fare l’ingegnere agrario. Una cosa a cui, tra parentesi, penso ancora. È stato mio padre a prendermi sotto la sua ala e a farmi lavorare in teatro come macchinista. L’ho fatto per due anni».

 

E che cosa ha scoperto?
«Tutto ciò che c’è oltre la recitazione. Ho scoperto l’artigianato di questo lavoro, ed è nella praticità delle cose, degli atti, dell’organizzazione o delle battute provate, che è nato il mio amore per questa vita. Un amore che non si è mai fermato».

 

Che vita è la vita dell’attore?
«Essere al centro dell’attenzione è la cosa che mi piace di meno. Quello che mi piace profondamente è fare parte di un processo: mi piace lavorare a un ruolo, ma non mi piace molto rivedermi mentre lo interpreto. Mi piace vivere quel momento, e viverlo consapevolmente».

 

Quali sono le controindicazioni?
«Molti attori hanno sempre voluto fare questo mestiere: pronti a qualunque cosa, anche a seppellire la madre, pur di riuscirci. Io no. Sono figlio di una donna, di cui non si parla così frequentemente come si parla di mio padre Vittorio, che è Juliette Mayniel, che è stata un’attrice molto importante e che ha smesso di fare cinema per tutto quello che lo circondava».

 

Cioè?
«Era sempre molto fotografata, molto seguita, molto ripresa: e a lei non interessava. A me questa cosa non dispiace. Ma ritengo più appagante la meraviglia della recitazione: quei secondi, quei minuti o quelle ore in cui fingi di vivere in un’altra realtà. E in quegli istanti ti può capitare di credere davvero di essere lì: è come sognare ad occhi aperti».

 

Nei due anni da macchinista, qual è stata la lezione più importante che ha imparato?
«La paga bassa. Mi permetteva a stento di dormire in un albergo a due stelle. Mio padre, in questo senso, non mi ha mai aiutato ed è una cosa di cui gli sarò sempre grato. Perché mi ha permesso di imparare ad apprezzare quello che ho. E poi ho visto all’opera il talento dei grandi attori, e ho conosciuto il senso di condivisione e di famiglia che si respira in teatro».

 

Sembra una bella atmosfera.
«Il teatro e il cinema sono esempi di società riuscite: società in cui resiste il rispetto per l’altro, in cui si collabora veramente per un obiettivo comune».

 

Quando ha smesso di essere solo un figlio?
«Quando ho dovuto prendere il timone delle cose. Eravamo in tournée e mio padre stava poco bene. Sono stato io a dirgli di fermarsi e lui mi ha ascoltato. Quella è stata la decisione più drammatica e più importante della mia vita. E in quel momento sono diventato il padre di mio padre. Anni dopo, poi, sono diventato anche padre di Leo».

 

Che cosa significa, per lei, essere padre?
«La paternità è la cosa più bella della mia vita. Si condivide, ma si condivide con amore. Si dà, ma si dà senza volere niente in cambio. C’è una purezza sincera, non mediata, spontanea».

 

Il rapporto tra padri e figli ritorna anche in Non odiare, al cinema in questi giorni.
«E ritornano anche un certo realismo e una certa attualità, in cui violenza e odio sono molto presenti. Non si dice tutto, e questo è un problema. Le bugie tendono ad accavallarsi e ad accumularsi, e nel loro insieme diventano quasi insuperabili».

 

Di chi è la colpa?
«Le persone peggiori sono gli egoisti. Sono i disinteressati. Quelli che, per il proprio tornaconto personale, sono disposti a fare di tutto».

 

E cosa resta?
«La rabbia che viene covata per anni. Ma parlarsi e cercare di capire quello che ci dice una persona con cui non condividiamo niente sono sforzi che vale la pena di fare: che, anzi, dobbiamo fare. Il rischio è di far degenerare ulteriormente una situazione che è già molto, ma molto grave».

 

Foto: ©Riccardo Ghilardi

Fonte: Vanity Fair (Nr. 40)